#55 Come definire un brand community-first
Non un numero di follower, un evento promozionale o una newsletter che si apre con un “Ciao community!” e finisce lì.
Ciao a tutti! 👋🏻
Ci siamo ci siamo! Come state? Mi sono preso una pausa di qualche settimana con tutti i ponti festivi che ci sono stati, ma siamo tornati carichi! ..incominciamo!
Cosa intendo per brand community-centrico
Community. Un termine che oggi si usa spesso, ma che altrettanto spesso viene svuotato del suo significato più profondo. Lo si riduce a un numero di follower, a un evento promozionale in negozio, a una newsletter che si apre con un “Ciao community!” e finisce lì.
Essere brand community-centrico non significa vendere un prodotto per la community, significa essere con la community.
Perché la community è importante
Contrariamente a quanto molti credono, non siamo una popolazione naturalmente fedele ai brand. Le tecnologie invecchiano in fretta, le mode svaniscono e i competitor arrivano con proposte più brillanti o prezzi più aggressivi. In un mercato così fluido e competitivo la fedeltà non è più un punto di partenza, ma un traguardo da conquistare ogni giorno.
A renderlo possibile non è tanto il prodotto in sé, ma la qualità delle connessioni che un brand riesce a costruire. Sono le relazioni a generare emozioni e sono proprio le emozioni a guidarci quando scegliamo (e riscegliamo) un brand.
Una community solida, costruita sulla fiducia e sul senso di appartenenza, diventa quindi il vero capitale in un mondo dove nulla resta fermo.
3 tipi di approccio al brand community-centrico
Vi riporto un articolo di BoF dove vengono classificati 3 tipi di approccio al fare community building:
Activity-driven: la community nasce dall’azione condivisa: sport, hobby, interessi. L’obiettivo è creare occasioni per incontrarsi, confrontarsi e riconoscersi in un’identità comune. Il prodotto funge da catalizzatore delle esperienze, mentre il consumatore diventa parte attiva del racconto contribuendo a dare forma e valore collettivo alla community.
Personality-driven: in questo caso il collante è il leader (che spesso è il fondatore). Il brand non vende ai follower, ma dà voce a una visione che vede il prodotto come mezzo per radunare persone attorno a un ideale più che come oggetto di consumo.
Value-based: la community si forma intorno a convinzioni o missioni condivise (sostenibilità ambientale, inclusione sociale, etc..). Il consumatore non è il target, ma un alleato che condivide il percorso del brand.
Un unico schema: valore + pretesto + prodotto
Se scomponiamo i tre approcci, scopriamo che dietro di essi si cela lo stesso identico schema. Abbiamo il “pretesto” che fa da collante, abbiamo il “valore” che unisce le persone e abbiamo il “prodotto” che diventa il simbolo portatore del valore.
valore + pretesto + prodotto = brand community-centrico
Il valore è il cuore pulsante della community, è ciò che dà senso al tempo e all’energia investiti. Senza un valore percepito, non esiste aggregazione, non esiste emozione.
Il pretesto è ciò che dà il via al processo di aggregazione. Non è fine a sé stesso, ma serve a creare un’occasione di convergenza.
Il prodotto non è merce da vendere, ma strumento e simbolo del valore condiviso. È il “tessuto” con cui si costruisce la community.
Facciamo qualche esempio per capire il meccanismo.
Activity-driven: Spotify
Spotify non si limita a offrire un servizio di streaming, ma trasforma i dati di ascolto in evento collettivo per celebrare l’identità musicale di ogni utente. Wrapped diventa così un rituale condiviso, atteso e commentato da milioni di persone. Nel 2023, Wrapped ha generato più di 2 miliardi di impression e oltre 90 milioni di condivisioni, dominando conversazioni e feed in tutto il mondo senza un singolo euro speso in media tradizionale.
Pretesto: il wrapped trasforma un gesto individuale (scegliere e riprodurre musica) in un’esperienza collettiva. Ognuno riceve la propria sintesi e la condivide sui social creando confronto e curiosità. Persone che si incontrano (virtualmente), discutono e definiscono una parte della propria identità in base ai gusti che condividono.
Valore: i valori che ruotano attorno possono variare da un individuo all’altro. Qui sicuramente troviamo senso di appartenenza a un fandom, possibilità di mettersi in mostra e bisogno di identificazione tramite i propri gusti musicali.
Prodotto: playlist personalizzate non solo come strumento di fruizione, ma come simbolo d’identità e del rapporto con la community di ascoltatori.
Personality-driven: Glossier
Glossier nasce dal dialogo diretto tra le lettrici (e poi consumatrici) e la sua fondatrice Emily Weiss. Da Into The Gloss (blog da oltre 10 milioni di visualizzazioni mensili) prende forma un brand costruito attorno al valore di una bellezza autentica, accessibile e senza filtri. Fin dall’inizio Glossier ha coltivato una community, trasformando conversazioni e feedback in prodotti reali, co-creati e riconoscibili come simboli di una nuova idea di self-care condiviso.
Pretesto: Into The Gloss e rubriche come The Top Shelf hanno creato lo spazio di confronto. Oggi commenti e recensioni sui social, le sessioni Q&A di Emily Weiss e i gruppi “insider” mantengono viva la conversazione.
Valore: autenticità e inclusività, non si tratta solo di bellezza, ma di una filosofia “Skin first, makeup second” che valorizza le storie personali, l’empowerment e la self-expression di ciascuno.
Prodotto: non sono solo formule cosmetiche, ma “tessuti” del valore condiviso. Dai packaging alle formule cruelty-free co-create con la community. Ogni prodotto diventa simbolo di un’estetica reale e accessibile.
Value-based: Patagonia
Patagonia non vende solo capi outdoor, ma coinvolge i suoi clienti in una missione più ampia per la tutela dell’ambiente, facendoli sentire parte di un impegno concreto.
Pretesto: i messaggi veicolati dalle campagne del brand invitano la community a impegnarsi concretamente per l’ambiente, non solo con le parole.
Valore: la tutela del pianeta e l’eticità del consumo. Un impegno che parla al senso di responsabilità di ciascuno, trasformando il cliente in un alleato motivato.
Prodotto: abbigliamento realizzato con materiali riciclati, programmi di riparazione e totale trasparenza nella filiera diventano la prova materiale della missione ecologista, rendendo ogni acquisto un gesto condiviso.
Il paradosso del lusso esclusivo vs community inclusiva
Esiste correlazione tra il posizionamento “lusso” e la minore enfasi sulla strategia "customer-as-community"? Ragioniamo..
I luxury brand costruiscono valore attraverso scarsità percepita e esclusività, mentre le community richiedono accessibilità e condivisione. Il “lusso” si nutre di anti-democrazia, meno accessibile diventa il prodotto più forte resta la sua aura consolidando il desiderio e il posizionamento esclusivo nel lungo termine.
Ma… alcuni luxury brand adattano il concetto di community in forma ristretta e gerarchica. Chanel organizza ogni anno sfilate e presentazioni in location suggestive, ma l’accesso è riservato a una cerchia selezionata di clienti VIP, stampa specializzata e artigiani partner. I proprietari di una Rolls-Royce entrano automaticamente nel Whispers Club, con inviti a tour privati in fabbrica, eventi di gala e driving experience in luoghi unici. Possiamo quindi dire che si tratta di micro-community, dove l’idea di “comunità” si affianca a quella di esclusività anziché neutralizzarsi.
Questa forma ibrida mette in luce un paradosso interessante: l’esclusività rafforza il senso di appartenenza di pochi, ma sacrifica la co-creazione ampia e il senso di inclusione che animano le community più vaste.
Sotto sotto troviamo sempre “appartenenza”, “riconoscimento”, “condivisione”, ma si declina in un contesto in cui il “noi” include solo chi ha già superato la soglia dell’élite.
E te cosa ne pensi?
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